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Armi, violenza, stragi: l'infelice destino dei popoli


Come oramai succede da un paio di anni, in estate la mia famiglia partecipa ad alcune tappe di un tour musicale abbastanza noto in Puglia. Per questa ragione qualche domenica addietro eravamo in Piazza Sant’Oronzo a Lecce. Quest’anno però, qualcosa di diverso gravava l’atmosfera allegra e spensierata di uno spettacolo che attrae migliaia di persone. I controlli giustificati e necessari per accedere alla centralissima piazza, oltre ad essere un’imbarazzante novità, evocavano i terribili fatti di violenza che nelle ultime settimane si sono intensificati anche nel vecchio continente. Alberto Negri, editorialista del Sole 24Ore, proprio la scorsa domenica parlava dei luoghi dove si consumano le stragi, come una sorta di filo rosso che collega la vita degli stragisti: «la Promenade des Anglais, un treno, un centro commerciale, posti affollati dove la gente si rilassa». Tutti sappiamo benissimo che sono proprio questi i luoghi che anonimi individui prediligono per sfogare la propria ferocia, e sappiamo pure che d’ora in poi, all’ingresso di un concerto in piazza, come a quello di una discoteca ci verrà chiesto, sempre più spesso, di aprire la borsa o di sbottonarci il giubbotto per i controlli. Tuttavia in posti non così lontani dall’Europa questo cambiamento della vita quotidiana è avvenuto con scarsa preoccupazione da parte dei cittadini europei. Per qualche decennio la violenza scoppiata nel cuore dell’Asia e dell’Africa è stata considerata la realtà di «popoli infelici – come ci ricorda Alberto Negri - che non dovrebbero frequentare i bazar, le piazze, i centri commerciali»; mentre non si è voluto vedere lo tsunami di violenza che andava crescendo in luoghi come Baghdad da dove, poi, si è scatenato in tutte le direzioni, raggiungendo l’Oceano Pacifico attraverso Kabul, Lahore, Daqqa e – ahimè- il Mediterraneo attraverso Damasco, Aleppo, Algeri e Tunisi. Neanche quando sulle coste dell’Europa giungevano i corpi di bambini, donne e uomini che scappavano dalla violenza si è cercato di fare le opportune riflessioni. Ed è assai alto il rischio che neanche oggi, nonostante la vita quotidiana di noi europei stia già cambiando, si riuscirà a far ragionare i cittadini sulle reali cause dell’ondata di violenza che oramai copre una vasta parte del pianeta.
La vendita delle armi. Qualche anno prima che i corpi dei bambini siriani, iracheni e afgani arrivassero sulle coste europee del Mediterraneo privi di vita, oltre a portare direttamente la guerra in Afghanistan ed Iraq, le economie occidentali hanno trovato nella vendita delle armi verso il Medio Oriente, Nord Africa e Paesi del Golfo, un importante mercato dove far segnare un aumento del proprio PIL. Purtroppo, neanche quando il fragore delle esplosioni di Aleppo si avvertiva in Turchia e quello delle cinture esplosive di Istanbul in Grecia il mercato delle armi si è fermato. Anzi il trend di questo particolare export lascia presagire che nemmeno le esplosioni sul territorio europeo potranno pregiudicare questa tendenza; d’altronde il nesso tra vendita delle armi e il propagarsi delle particolari tecniche di violenza prodottesi in Medio Oriente è sempre tenuto fuori da qualsiasi ragionamento pubblico. Così come la maggior parte dei mezzi di informazione non proferisce parola riguardo il  Trattato internazionale sul commercio delle armi (Arms Trade Treaty, ATT) che dal 2013 vieta ogni esportazione bellica, di armi sia pesanti che leggere, verso Paesi che potrebbero usarle in violazione dei diritti umani. Naturalmente, ad essere in disaccordo con il trattato, sono proprio i Paesi che fanno fatica a rispettare i diritti umani (Corea del Nord, Iran, Siria, Arabia Saudita, Cina, Cuba, Federazione Russa, India, Indonesia, etc) a cui, comunque, continuano a giungere regolarmente le armi dai paesi che, con tanta ipocrisia, sono sempre pronti a vestire i panni di poliziotti del mondo in difesa dei diritti umani. Ma se è vero che esiste un nesso tra guerra e denaro, così come testimonia la locuzione “pecunia nervus belli”, allora occorre tirare in ballo anche le istituzioni che finanziariamente tengono insieme il circuito economico della vendita delle armi: le banche. Tra le più attive nel mondo troviamo Deutsche Bank e BNP Paribas a cui si associano una miriade di banche tra cui le nostrane Intesa Sanpaolo, Unicredit, etc.
Il ruolo dell’Italia. Nella squadra delle nazioni più attive nella vendita delle armi nel mondo, il Belpaese gioca –tanto per usare un termine calcistico – da titolare. Circa due anni fa da questo blog - richiamando quanto scritto da The Nation e Famiglia Cristiana – si scrisse del “War Tour”, una sorta di fiera galleggiante, organizzata a bordo di navi militari, per promuovere il made in Italy in fatto di armi in diversi paesi dell’Africa e sui territori delle monarchie del Golfo. Da allora, così come si legge nella Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione del  2015, l’andamento delle autorizzazioni all’esportazione di armamenti è aumentato del 200%, il cui valore complessivo è salito a 8,2 miliardi dai 2,9 del 2014. Nonostante la legge 185/1990,che vieta la vendita delle armi verso «verso i Paesi in stato di conflitto armato, […]verso Paesi la cui politica contrasti con i principi dell'articolo 11 della Costituzione,[…] verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani», l’impennata dell’export bellico del 2015 si deve proprio a partner commerciali come l’Iraq, che dal 2015 è tra i nuovi clienti italiani con vendite per 14 milioni; la Turchia nota per i recenti fatti di sangue da guerra civile e per i bombardamenti contro i curdi; la Russia, nonostante l’embargo post Ucraina; il Pakistan, territorio di perenne conflitto di etnie come i talebani e gli indipendentisti beluci; l’India,  nonostante la crisi dei marò e la guerra contro la ribellione contadina naxalita; l’Egitto che,  pre-caso Regeni, ha aumentato da 32 a 37 milioni la spesa per le armi leggere e i lacrimogeni (usati dalla polizia del Cairo nelle repressioni di piazza). Ma è il Medio Oriente ad attestarsi come la principale piazza dell’industria bellica italiana; qui troviamo paesi come l’Arabia Saudita che nel 2015 ha aumentato le importazioni di forniture belliche italiane a 257 milioni dai 163 milioni del 2014. Un incremento superiore al 50% si è registrato anche verso gli altri paesi che partecipano alla guerra in Yemen a fianco dei sauditi: Emirati (principale cliente mediorientale), Bahrein e Qatar.

Lo scorso 18 luglio, in ricordo della nascita di Don Andrea Gallo, in piazza Banchi a Genova Padre Alex Zanotelli, ricordando le vittime di Nizza e tutte le altre vittime innocenti, ha invitato tutti a riflettere. «Viviamo in un mondo assurdo – ha limpidamente scandito Padre Zanotelli - e dobbiamo cominciare a riflettere su questo»; e, dopo aver puntato il dito contro il mercato delle armi, ha continuato: «dobbiamo iniziare a capire che su quello che sta avvenendo abbiamo delle responsabilità tutti […], è il nostro silenzio (di cittadini) che provoca le guerre. Tocca a noi, nessuno verrà a salvarci». Intanto, mentre lascio scorrere la cerniera che chiude la mia tracolla dopo un altro controllo, mi rendo conto che parte di quell’infelicità che un tempo apparteneva solo a popoli lontani «è oramai arrivata fino qui».  

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