«Secondo voi
potrebbe accadere in Germania una tragedia come quella dell’ILVA – si chiedeva
Enrico Grazzini su Il Manifesto nell’estate di 3 anni fa – in cui l’industria
pubblica prima e quella privata poi inquinano per decenni un’intera città
imponendo ai lavoratori di scegliere tra lavoro e salute fino al rischio di
chiusura totale?». Similmente, dopo l’ennesimo decreto “salva Ilva”, che invece
di bloccare l’altoforno 2, dove lo scorso 8 giugno Alessandro Morricella è
stato ucciso da un’improvvisa colata
infuocata, ha bloccato la magistratura che indagava sull’ennesimo caso di morte
all’Ilva, anch’io mi chiedo: «potrebbe accadere in Germania che uno stabilimento
solo perché ritenuto dal Governo “di interesse strategico nazionale” possa
continuare a svolgere la sua azione di “cecchinaggio” tra gli operai e i
cittadini, negando di fatto alla magistratura di svolgere le dovute indagini?».
In effetti una tale situazione non è riproducibile in
Germania, né in altri Paesi dell’area renana e scandinava, dove l’organizzazione
dell’impresa si basa sul Mitbestimmung* (termine
traducibile con “cogestione”) che prevede la partecipazione diretta dei
lavoratori, ampiamente rappresentati, circa le decisioni dell’impresa.
Seppur importante, l’obiettivo del Mitbestimmung non è
esclusivamente rappresentato dalla difesa delle condizioni di lavoro, ma è
rivolto ad incidere in maniera sempre più forte sulla gestione delle aziende e
sulle loro strategie d’investimento. In questo quadro rientra anche la
sostenibilità ambientale dei processi di produzione dell’impresa, che assai
spesso è motivo di crisi e, talvolta anche di disastri ecologici. La presenza
dei lavoratori nei boards aziendali aumenta il controllo sul rispetto, da parte
dell’impresa, dei vincoli ambientali propri del territorio che la ospita.
Infatti, nella maggior parte dei casi, il territorio rappresenta non solo il
luogo in cui il lavoratore svolge la propria attività lavorativa, ma anche il
posto in cui insistono le proprie relazioni sociali, comprese quelle affettive.
E proprio grazie ai rapporti extra occupazionali (famiglia, amicizia) che la
responsabilità del lavoratore per la sua attività produttiva non si esaurisce
all’interno del luogo di lavoro, ma va ben oltre, sino ad investire anche la
sfera degli affetti. Pertanto un eventuale danno ambientale, provocato
dall’attività produttiva di un’ impresa, potrebbe essere la ragione dei
problemi di salute di individui che risultano legati al lavoratore, oltre che
del lavoratore stesso. Quindi la possibilità del lavoratore di entrare nella
“stanza dei bottoni”, oltre a ridurre l’asimmetria di informazione tra capitale
e lavoro riguardante le esternalizzazioni, permette di indirizzare l’impresa su
modalità produttive ecologicamente sostenibili. In questo contesto – cosi come
scrive Ugo Mattei su il Manifesto – il «lavoro si fa bene comune» perché
«recupera la sua dimensione collettiva», diventando un’esperienza sociale.
I Padri Costituenti, nella loro gigantesca capacità di pensare il futuro della nostra nazione, ragionarono su un modello di cogestione dell’impresa anche per l’Italia, scrivendo l’articolo 46 della Costituzione che «riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende». Qualche caso è anche annoverabile nella storia repubblicana italiana, come la vicenda del comitato di gestione della Fiat, nominato dai lavoratori alla fine della guerra per salvare l’azienda e garantire l’attività produttiva, mentre la proprietà e il management latitavano, perché compromessi con il fascismo: il comitato di gestione fu sciolto dopo pochi mesi dalla sua creazione, per volontà dell’amministratore delegato Vittorio Valletta, senza che i sindacati e i partiti di sinistra opponessero una decisa resistenza; e le ragioni di una tale inerzia da parte dei “difensori” dei lavoratori sono assai comprensibili visto che proprio sullo scontro tra capitale e lavoro fondano il loro potere.
I Padri Costituenti, nella loro gigantesca capacità di pensare il futuro della nostra nazione, ragionarono su un modello di cogestione dell’impresa anche per l’Italia, scrivendo l’articolo 46 della Costituzione che «riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende». Qualche caso è anche annoverabile nella storia repubblicana italiana, come la vicenda del comitato di gestione della Fiat, nominato dai lavoratori alla fine della guerra per salvare l’azienda e garantire l’attività produttiva, mentre la proprietà e il management latitavano, perché compromessi con il fascismo: il comitato di gestione fu sciolto dopo pochi mesi dalla sua creazione, per volontà dell’amministratore delegato Vittorio Valletta, senza che i sindacati e i partiti di sinistra opponessero una decisa resistenza; e le ragioni di una tale inerzia da parte dei “difensori” dei lavoratori sono assai comprensibili visto che proprio sullo scontro tra capitale e lavoro fondano il loro potere.
Pensare ad una sorta di modello tedesco di gestione delle
imprese equivale a creare una “impresa democratica”, necessaria sia per
regolare le condizioni di vita dei lavoratori all’interno dell’impresa, sia per
ciò che concerne la responsabilità sociale della stessa. Inoltre l’esercizio
della democrazia, specialmente nei luoghi di lavoro, contribuisce ad aumentare
la capacità dei cittadini, detta anche «empowerment», a partecipare
consapevolmente alla vita sociale e politica. E forse è proprio questo che si
vuole evitare; altrimenti non si spiegherebbero gli otto decreti «ammazza
Taranto» - come li definisce, in un appassionato appello, Michele Riondino –
che mortificano i lavoratori e la popolazione che «pare non capire ciò che le
sta cadendo addosso». Pertanto per decreto si continua a parlare vagamente di
piani con «misure e attività» aggiuntive; e poi di «due commissioni» e di
fantomatici «tavoli di valutazione» a cui dovrebbero partecipare i sindacati,
la Procura, l’Inail, Asl e il comando provinciale dei vigili del fuoco; facendo
ben attenzione, però, a tener lontano i lavoratori ed i cittadini perché l’Ilva
– come recita il decreto legge
«Fallimenti»- è un’impresa di «interesse
strategico nazionale» ed in Italia la nazione non appartiene al suo popolo!
*“La cogestione delle imprese tedesche è affidata a due organi: un consiglio esecutivo (Vorstand) e un consiglio di sorveglianza (Aufsichtsrat). Nelle aziende da trecento a duemila dipendenti, i rappresentanti del lavoro nel consiglio di sorveglianza sono tre su nove membri, nelle aziende più grandi sono sei su dodici o dieci su venti e comprendono anche i sindacalisti esterni. Nelle aziende con più di duemila dipendenti (anche quelle multinazionali di origine estera) la legge impone che i lavoratori abbiano il diritto di eleggere metà dei rappresentanti del consiglio di sorveglianza. La restante metà e il presidente – il cui voto vale doppio in caso di parità nelle votazioni – sono eletti dall’assemblea degli azionisti.
Non è prevista per i sindacati e i lavoratori alcuna partecipazione azionaria o agli utili delle aziende.
Il consiglio di supervisione elabora strategie aziendali e ne verifica l’applicazione, e soprattutto nomina il consiglio di gestione delle aziende, che è incaricato della gestione operativa. Anche nel consiglio di gestione è presente un rappresentante dei lavoratori, che in generale collabora con il direttore delle risorse umane. Inoltre sul piano strettamente sindacale, il consiglio dei lavoratori, un organismo sindacale aziendale eletto dai dipendenti dell’impresa, rappresenta e difende le istanze dei dipendenti.” Enrico Grazzini, Il Bene di tutti
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