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Genova per me

La sveglia suona alle cinque e mezza, mentre l’aurora sveglia i gabbiani del porto di La Spezia. Mi abbiglio da viaggiatore estivo (pantaloncini larghi, maglia comoda, scarpe da running e tracolla), lascio la camera. Raggiungo la stazione dove il treno regionale delle 07.12 mi porta a Genova. Nel vagone siamo in pochi: due marocchini, tre donne latino-americane, qualche turista mattiniero ed una ragazza, che in seguito mi dirà essere di La Spezia.
Nella prima parte del viaggio Spezia-Genova si percorrono le Cinque Terre, un percorso quasi completamente in galleria, dove pare di essere in un cinema con lampi di luce che proiettano, al di fuori del finestrino, panorami mozzafiato di scogli che declinano dolcemente nel mare. Nei novanta chilometri che percorro le stazioni in cui il treno ferma sono tante, così in due ore sono finalmente alla stazione d’arrivo: Genova Piazza principe.
 Appena fuori la stazione la città ricorda ai visitatori che qui è nato Cristoforo Colombo, il più grande navigatore italiano. Un monumento in marmo bianco, sulla cui sommità svetta lo scopritore del “Nuovo Mondo”, porta scritto «A CRISTOFORO COLOMBO LA PATRIA».

La mia prima tappa, qui a Genova, è poco distante dalla stazione e per arrivarci basta seguire le tante famiglie che ordinatamente si muovono accanto ad una trafficatissima strada e la sopraelevata che passa sopra le nostre teste. Al centro del porto, infatti, si trova l’acquario, opera grandiosa di Renzo Piano. Visitare l’acquario di Genova in una domenica mattina d’estate, vista la massa di visitatori, è un vero e proprio azzardo specie per me che avrei voluto capirci qualcosa in più sulla fauna acquatica. Dopo un’ora e mezzo sono di nuovo sulla banchina del porto abbastanza soddisfatto perché il tour tra le tante varietà di pesci, nonostante la calca, ha appagato le mie curiosità

Prossima meta, il simbolo di Genova per eccellenza: la Lanterna. Ho saputo dell’esistenza di questo antico faro circa un anno fa, quando vedendolo in una foto esclamai: «oh, che bel faro!». «si tratta della Lanterna» mi corresse un collega, che da grande conoscitore del mondo calcistico mi parlò del «famoso derby della Lanterna». Il calcio serve anche a questo!

Decido di raggiungere il monumento a piedi, costeggiando il mare o meglio i vari terminals da cui partono grosse navi da crociera e traghetti. Non immaginavo che avrei camminato tanto: la mole della Lanterna (alta 117 metri) la fa sembrare assai più vicina. Dopo una buona mezz’ora di cammino sono ai piedi dell’antico faro. Ancora un’ultima fatica: la ripida salita verso la porta del Museo della Lanterna. L’elevata pendenza fa tenere la testa giù e lo sguardo va appena oltre la punta delle scarpe. Guardo il pavimento attratto da alcuni sassi levigati di color turchese e, per un attimo, mi pare di lasciare il mio tempo. Ma basta alzare gli occhi e leggere la scritta ENEL sulla centrale a carbone a pochi metri dalla Lanterna a riportarmi nel tempo in cui vivo. Si pensa che il nome Genova derivi dal Dio romano Giano bifronte per il fatto che la città pare avere due volti: uno che guarda la montagna ed l’altro che guarda il mare. Da quassù si ha la sensazione che la città continui ad essere bifronte con uno sguardo verso il passato (la Lanterna, le cupole che svettano in direzione della città vecchia) e l’altro verso una rinnovata modernità (le strade sopraelevate, le grandi navi da crociera)

È già ora di pranzo, devo mettere qualcosa nello stomaco. Mi fermo vicino al Porto Antico in uno dei tanti bar/ristorante che si trovano sotto ad un porticato. Consumo un pranzo veloce ma caldo, caffè, pago il conto. Prossima destinazione: le strade di De Andrè, “i quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi”. Consulto il mio GPS che mi indica via del Campo a poco più di cento metri. Entrare per la prima volta nella città vecchia di Genova è come entrare in un formicaio che brulica di vita; l’aspetto cupo di questi carruggi rende il luogo talmente tenebroso che anche uno spensierato turista può apparire, all'ignaro visitatore, un feroce criminale. Mentre immagino che dovrò attraversare vicoli puzzolenti di piscio, come se ne trovano in altre città mediterranee, odoro invece tutt’assieme i profumi del Mediterraneo, quelli dei suk nordafricani, delle cucine turche e greche, delle spezie esposte sulle bancarelle. Quella che pareva una passeggiata imprudente nella città vecchia si è rivelata essere invece un’affascinante percorso tra storia, razze, colori, profumi. Di quei volti minacciosi che vedo nei tanti bazar, davanti alle macellerie halāl, sotto gli usci diventano i volti di madri, di padri, di figli con cui i genovesi scherzano, ridono, fanno affari, comprano e vendono. Ho ora la sensazione che Genova non sia solo la Porta d’Europa di cui tanto si parla, ma rappresenti la Porta di un Mondo Interculturale, assai prossimo, in cui le varie razze e culture si confrontano senza affrontarsi.

«Siete arrivato a destinazione», mi ripete la voce femminile del navigatore: sono arrivato in via del Campo! In questo budello guardo in alto e mi “sembra di andar lontano/lei ti guarda con un sorriso/non credevi che il paradiso/fosse solo lì al primo piano”. La via è simile a tante altre: stretta, con i muri dei caseggiati altissimi; ma ha peculiarità di aver ispirato una delle canzoni più belle di De Andrè, attraverso la quale diverse generazioni hanno imparato dall’artista degli “ultimi” che “dai diamanti non nasce niente/ dal letame nascono i fiori”.

Scrivo la prossima destinazione sul palmare, che m’informa che dovrò percorrere un bel tratto a piedi. Il luogo di Genova che andrò a breve a visitare è un luogo simbolo della generazione mia e di quelle ad essa prossime. Ma prima di iniziare a percorre quest’ennesimo lungo tragitto mi concedo una sosta all’ombra sulle scalinate della Cattedrale di San Lorenzo.
Alle due del pomeriggio di questa calda domenica di Luglio Genova è semideserta. Sul sagrato siamo davvero in pochi. Vicino a me c’è un barbone completamente sdraiato che dorme, tre donne latino-americane di cui una discute animatamente al cellulare in lingua spagnola, e una coppia di turisti forse inglesi. All’interno della chiesa che è alle mie spalle sono conservati le ceneri di San Giovanni Battista e un proiettile miracolosamente inesploso lanciato dalla flotta inglese nel 1941 sopra la basilica. Mezz’ora di pausa è sufficiente per riprendermi dal caldo della controra genovese, mi rimetto in cammino. Percorro tutta via XX settembre, supero qualche altra piazza e finalmente sono arrivato alla meta ultima di questo viaggio.

Piazza Gaetano Alimonda è una piccola piazza a forma di “D” maiuscola, in cui convergono sei strade con al centro la chiesa di Nostra Signora del Rimedio. In questo, un tempo insignificante, angolo di Genova due giovani cavalieri giunsero per uccidere i mostri creati dal sonno della ragione. Gli occhi d’ognuno dei due, offuscati da un incantesimo, videro il male in quelli dell’altro. I due si batterono. Uno cadde. Ucciso. Morto, per ricordare all’altro che i mostri non esistono se non in un mondo senza ragione. Uno striscione sulla cancellata alla destra della chiesa ricorda a tutti quel sacrificio «Cesena ricorda, Carlo vive».

La mia gita a Genova, in questa calda domenica di Luglio è terminata, alla stazione di Piazza Principe alle 17,46 mi attende un intercity per La Spezia. Mi fermo un attimo ad un tabaccaio, compro qualche cartolina, che in epoca di sms, mms e quant’altro sono oramai divenute oggetti vintage. Dalla carrozza 8 posto 96 rivolgo un ultimo sguardo alla città, “con quella faccia un po'così/ quell'espressione un po'così/ che abbiamo noi che abbiamo visto Genova”.

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