Due giorni fa il Premio Nobel per la Pace è stato assegnato a tre donne: la Presidente liberiana Ellen Johnsonn Sirelaf, la connazionale Leymah Gbowee e la yemenita Tawakkul Karman. Le prime due hanno contribuito a mettere fine alle guerre civili che hanno dilaniato la Liberia sino al 2003; mentre la terza è un'attivista per i diritti umani, leader della protesta femminile contro il regime yemenita. Il Premio a queste tre donne – secondo le intenzioni del comitato per il Nobel - rappresenta un riconoscimento del rafforzamento del ruolo delle donne, in particolare nei paesi in via di sviluppo. Altri hanno legato il Premio agli eventi della Primavera araba. Sarebbe a mio avviso assai riduttivo
leggere questo Nobel sotto la lente geo-politica di una fase ancora in fieri e di cui non si conoscono i risvolti. Reputo molto più interessante, invece, guardare alle destinatarie del più importante riconoscimento per la Pace come la storia di tre donne che in contesti sociali difficili sono riuscite a lottare, rischiando persino la vita, per sottrarsi da forme di schiavitù sia politiche che sociali. In questo contesto il Premio Nobel per la Pace alle tre donne va ad abbracciare l’intero genere femminile che, nella maggior parte del mondo, subisce il potere di sistemi prettamente maschilisti. E, là dove non è una questione di genere a rendere la donna schiava, c’è l’economia che da schiave le trasforma spesso in vittime (donne che perdono la vita). Se consideriamo il fattore economia ci rendiamo conto che la condizione della donna non è solo precaria nei Paesi in via di Sviluppo ma lo è anche nei Paesi cosiddetti sviluppati, dove alle ragioni di mercato si immolano vite umane, specialmente di donne che - assieme ai clandestini – in una sorta di spietata gerarchia sociale sono preferibili ai maschi. Inoltre le vicende di “eminenti” politici nostrani, hanno fatto luce, proprio nella “democratica” Italia, su un altro aspetto della condizione di sottomissione della donna che, da buona serva, se riesce a far “sollazzare” il potente di turno può ambire anche a prestigiose cariche pubbliche. Guardando ancora al Nobel per la Pace e rimanendo nel contesto nostrano, vorrei sottolineare che Ellen Johnsonn Sirelaf è la Presidente della Liberia mentre la nostra evoluta democrazia, a quasi settant’anni dalla sua nascita, non ha mai avuto una Presidente della Repubblica e tantomeno una Presidente del Consiglio.
leggere questo Nobel sotto la lente geo-politica di una fase ancora in fieri e di cui non si conoscono i risvolti. Reputo molto più interessante, invece, guardare alle destinatarie del più importante riconoscimento per la Pace come la storia di tre donne che in contesti sociali difficili sono riuscite a lottare, rischiando persino la vita, per sottrarsi da forme di schiavitù sia politiche che sociali. In questo contesto il Premio Nobel per la Pace alle tre donne va ad abbracciare l’intero genere femminile che, nella maggior parte del mondo, subisce il potere di sistemi prettamente maschilisti. E, là dove non è una questione di genere a rendere la donna schiava, c’è l’economia che da schiave le trasforma spesso in vittime (donne che perdono la vita). Se consideriamo il fattore economia ci rendiamo conto che la condizione della donna non è solo precaria nei Paesi in via di Sviluppo ma lo è anche nei Paesi cosiddetti sviluppati, dove alle ragioni di mercato si immolano vite umane, specialmente di donne che - assieme ai clandestini – in una sorta di spietata gerarchia sociale sono preferibili ai maschi. Inoltre le vicende di “eminenti” politici nostrani, hanno fatto luce, proprio nella “democratica” Italia, su un altro aspetto della condizione di sottomissione della donna che, da buona serva, se riesce a far “sollazzare” il potente di turno può ambire anche a prestigiose cariche pubbliche. Guardando ancora al Nobel per la Pace e rimanendo nel contesto nostrano, vorrei sottolineare che Ellen Johnsonn Sirelaf è la Presidente della Liberia mentre la nostra evoluta democrazia, a quasi settant’anni dalla sua nascita, non ha mai avuto una Presidente della Repubblica e tantomeno una Presidente del Consiglio.
Durante i moti della Primavera egiziana, parlando col mio amico cairota Ahmed sul nascente progetto democratico in Egitto, convenimmo che un percorso democratico non poteva esserci senza un ruolo centrale della donna. Ora, esaminando le storie delle tre donne premiate e le realtà nazionali in cui esse si sviluppano, è chiaro che, nelle aree in cui si sta dando luogo a nascenti progetti democratici, la donna non è più disposta alla marginalizzazione, mentre un’involuzione in tal senso sta avvenendo nelle democrazie mature. Pertanto il Premio nobel per La Pace 2011 è sicuramente un faro sui bui percorsi dei popoli che hanno deciso di cambiare, ma deve essere anche un elemento di riflessione sul reale stato di democrazia – e la condizione della donna ne è un importante fattore – dei Paesi sviluppati del cosiddetto Occidente.
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