Io, Daniel Blake è un
film che parla di povertà. È la storia di Daniel, vedovo cinquantanovenne di
Newcastle, che per motivi di salute ha perso il lavoro. La storia di Daniel si
incrocia con quella di Katie, madre single di due bambini, in difficoltà
economiche. Insieme vivranno i luoghi della povertà delle società occidentali
(uffici pubblici dove richiedere l’assegno di sostentamento, banchi alimentari,
periferie) e insieme vivranno la battaglia per una vita dignitosa, mentre un
complesso sistema burocratico e l’uso delle nuove tecnologie li spingono nella
miseria.
Non so quanto successo abbia
avuto il film in Italia, ma gli ultimi dati sulla povertà nel Belpaese
raccontano di tantissime vite che assomigliano a quella di Daniel, Katie e dei
suoi figli. Secondo i dati ISTAT, riportati dal Sole 24ore lo scorso 26 giugno,
le persone che in Italia vivono in povertà assoluta hanno superato i 5 milioni
nel 2017. È il valore più alto registrato dal 2005, cioè da quando si
registrano le serie storiche. Ancor più grave è la situazione se si considera
l’alta concentrazione dei poveri al sud, dove un abitante su dieci vive in
indigenza; mentre, tra i minori, sono 1,2 milioni i bambini e ragazzi che
vivono in povertà.
Seppur meno grave, anche la
povertà relativa ha allargato la sua fetta di popolazione raggiungendo 3
milioni 171 mila famiglie, per un totale di 9 milioni 368mila residenti. Tanto
per intenderci nella categoria di povertà relativa rientra chi vive nelle
famiglie che hanno una spesa al di sotto della soglia di 1.085 euro e 22 centesimi
al mese per due persone.
Come mai, proprio nel paese dei
“i ristoranti sempre pieni” esistono tanti poveri? Come mai ad un problema così
grave non si è contrapposto un programma serio per arginarlo? Invece non si è fatto nulla, o molto poco. Anzi
proprio l’inazione delle istituzioni ha condannato nuove categorie di individui
a vivere in povertà. D’altronde pensare che la classe politica o, ancor più in
generale, le istituzioni politico-amministrative trovassero una soluzione al
problema, è un esercizio da fessi visto che proprio sulla povertà della gente
si basa il sistema di scelta della classe politica, permettendo la selezione di
arrivisti e perfetti incapaci che troppo spesso riescono ad amministrare e,
quindi, a decidere le sorti di un municipio, una regione o dell’intera
nazione. Anzi, negli ultimi tempi, alle
alte sfere dell’amministrazione nazionale, pare che si stia facendo – non so
quanto inconsapevolmente – un po’ di confusione, mettendo in atto una vera e
propria lotta ai poveri come soluzione alla povertà.
Non va dimenticato, per chi come
me abita a certe latitudini, che la povertà è uno strumento che piega le
persone al caporalato e ad altri sistemi mafiosi. Inoltre, vivere in povertà significa togliere a più di un
milione di minori (dati di Save the
Children) il diritto di accedere ad un’offerta educativa di qualità
compromettendo così non solo il presente ma anche il futuro dell’intero Paese.
Più in generale parlare di povertà significa parlare di disuguaglianza e di
esclusione sociale, elementi questi che cozzano contro i dettami
costituzionali.
È chiaro che la crisi economica è l’alibi ideale e, se vogliamo, anche una sorta di “polvere magica” per
ammansire nuovi gruppi di popolazione, che sino a qualche anno fa erano fuori
dalla portata del fenomeno, ed accettare la propria povertà come voluta dal
destino, come qualcosa di inevitabile. Eppure a questo clima senza speranza si
contrappone quello della solidarietà della gente. Negli ultimi tempi sono stato
- diverse volte - ad uno dei centri Caritas di Latiano a lasciare indumenti
smessi; guardare le donne volontarie che gestiscono il centro che con grande
premura ordinano scaffali di merce che
distribuiscono a chi ha bisogno, mi riempie di speranza. E come loro, sono
molte le persone che, silenziosamente, si prodigano ad aiutare i bisognosi. Troppo spesso sono
proprio questi esempi di solidarietà umana l’unica forma di aiuto che riceve veramente
chi ha bisogno.
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